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sabato 5 aprile 2014

Nell’ex manicomio le «rotonde dei furiosi» e i teschi dei pazienti



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Tra le siepi del giardino all’italiana sbocciavano ogni anno 5000 tulipani. Migliaia, come le persone che trascorsero una vita intera rinchiuse tra le mura del manicomio di Voghera: respinte come un corpo estraneo dalla società. Oggi che i rampicanti hanno sfondato le finestre e i tetti sono crollati, di quell’immensa sofferenza, come dei progressi scientifici che hanno messo fine alle terapie inumane e gettato le basi per la chiusura dei manicomi, non resta che un ricordo lontano. Eppure, per molto tempo, la casa dei pazzi, oltre a regalare una poco lusinghiera terza «P» alla città (dopo quelle di «peperoni» e «prostitute»), fu, assieme a quella delle ferrovie, la più importante azienda della città, arrivando ad ospitare 1029 pazienti e dando lavoro ad oltre 400 persone.
Voluto dall’amministrazione provinciale (presidente Agostino Depretis) negli anni ’70 dell’Ottocento, l’ex manicomio fu concepito come un monumento al positivismo e costituisce un pregevole esempio di architettura sanitaria dell’epoca, sviluppato secondo concetti all’avanguardia. Dai sotterranei di servizio dotati di binari che corrono lungo tutta la pianta della struttura fino alle inquietanti «rotonde dei furiosi». Esiste ancora quella del reparto maschile. Vi si accede attraverso una pesante porta con un oblò, che immette in un corridoio semicircolare su cui si aprono una serie di stanzette con i letti di contenzione. Tutto senza neanche uno spigolo. Negli anni bui, era qui che si eseguivano le pratiche di sedazione più atroci.
Tutto raccontato puntualmente da 16mila cartelle cliniche, che giacciono impolverate nella biblioteca-archivio, assieme ad alcuni teschi di pazienti «prestati» alla ricerca scientifica e agli strumenti chirurgici, tra aghi per la lobotomia e tamponi per l’elettrochoc. Gran parte di queste cartelle (9000 maschili e 6000 femminili, dal 1876 al 1998) furono riordinate e catalogate negli anni ’60 del Novecento da una paziente schizofrenica, moglie di un generale di Pavia, entrata e, come la maggior parte degli «ospiti», mai più uscita dal manicomio. Secondo Dino Sforzini, decano degli psichiatri pavesi e ultimo responsabile dell’istituto, si tratta di un «tesoro culturale, che documenta passo per passo le conquiste della psichiatria e che merita di essere salvato attraverso la digitalizzazione».

Il nodo da sciogliere, però, è sempre quello delle risorse. Lo stesso problema che riguarda il recupero dei 63mila metri quadrati dell’area su cui sorge il complesso dell’ex istituto psichiatrico. A partire dal 1978, anno della chiusura dei manicomi decretata dalla legge Basaglia, si è discusso a lungo. Tramontata l’ipotesi di trasformazione in residenza assistenziale per anziani (ne è stata costruita una nuova a fianco, l’Asp Pezzani, costata circa 12 milioni di euro), oggi non è dato sapere cosa ne sarà dell’ex manicomio, di cui viene utilizzata solo una piccola parte dall’Asl di Pavia, oltre ad alcuni locali occupati dalla direzione del dipartimento di salute mentale dell’Azienda Ospedaliera, proprietaria dell’area.

Dopo la pubblicazione, nel 2011, di «Oltre il cancello, Voghera» di Angelo Vicini e Fabio Draghi (esaurito), a cui hanno fatto seguito alcune visite guidate, l’ex istituto psichiatrico provinciale è divenuto meta di una sorta di pellegrinaggio di ricercatori, associazioni e acchiappafantasmi ed è stato scelto come set di trasmissioni televisive (una puntata di «Mistero», con Marco Berry, andrà in onda a gennaio). Mentre un istituto tecnico di Voghera, a fine maggio, vi condurrà studi botanici e architettonici, per poi sviluppare progetti di conservazione e recupero. Insomma, i buoni propositi non mancano, ma al momento non si intravedono possibilità concrete di valorizzazione. E la vecchia «casa lunatica» pavese, col suo bagaglio di storia e sofferenza, cade a pezzi.

la fonte:
http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_gennaio_10/nell-ex-manicomio-rotonde-furiosi-teschi-pazienti-9d7ef644-7a0d-11e3-b957-bdf8e5fd9e96.shtml




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